La pubblicità la definisce la mostra più attesa dell’anno, io non so se sia davvero così, quello che so è che questa bellissima raccolta di capolavori, proveniente dal museo Kröller-Müller di Otterlo, ci racconta un Van Gogh in maniera poetica e immersiva.
Tra le opere esposte, rappresentative di un periodo che va dal 1882 al giorno del suo suicidio nel 1890 ci sono anche i capolavori di Picasso, Gauguin e Renoir attraverso i quali si entra nel vivo dell’esposizione che segue un ordine cronologico facendo riferimento ai periodi e ai luoghi dove Van Gogh visse: da quello olandese, al soggiorno parigino a quello di Arles fino all’ospedale psichiatrico di Auvers-sur Oise dove pose fine alla sua vita con un colpo di pistola.
Una mostra che ben racconta l’artista, il suo sentire e le sue scelte tecniche esplicate attraverso una serie di pannelli che illustrano la scelta dei colori, come il blu di Prussia, il rosso carminio, l’ocra; dei materiali, come il carboncino, l’acquerello bianco. Un percorso didattico non solo per i bambini ma anche per gli adulti che meglio vogliono conoscere il viaggio emozionale e intimo di uno dei più grandi artisti di tutti i tempi che si ritrasse bene 44 volte per riuscire a trasporre su tela i cambiamenti dell’essere umano.
Uno di questi famosissimi autoritratti, ovviamente presente in mostra, è stato scelto come immagine dell’evento capitolino. Si tratta di un’opera del 1887 realizzata con pennellate spesse ora orizzontali, ora verticali che ricordano il divisionismo di Seurat a cui Van Gogh si ispirava spesso e volentieri.
L’immagine dell’artista in questo autoritratto si staglia di tre quarti e lo sguardo penetrante rivolto allo spettatore mostra una insolita fierezza e un’idea di sé tumultuosa. A proposito di autoritratti, in mostra, si cita il ritrovamento risalente a pochi mesi fa in Scozia di un altro autoritratto emerso durante il restauro di una Testa di Contadina. Rimuovendo il cartone applicato sul retro della tela, sepolto da numerosi strati di colla, è spuntato il volto di Vincent: con tutta probabilità si tratta di una tela riciclata che egli portava con sé per risparmiare.
I contadini sono stai tra i soggetti più amati dall’artista; poveri e laboriosi, chini sui campi o sul desco mentre consumano una cena a base di patate essi sono rappresentati in quanto meritevoli perché le mani che hanno colto e pelato i tuberi sono le stesse che attingono al piatto di portata. Volti veri, brutali a volte e imperfetti rappresentano la vita attraverso la pittura, ben lontano dalla staticità senza afflato del ritratto su commissione.
In mostra tra un’opera e l’altra si trovano pannelli che ci raccontano dell’uomo, attraverso le lettere che si cambiava con il fratello, lettere dalle quali sono estrapolate frasi ad effetto ma tristemente crude e reali come quella dove il pittore comunica la sua consapevolezza di morire in povertà visto che le sue opere non sembravano, ai tempi, avere mercato.
Una consapevolezza oscura che sembra scontrarsi con la luce delle sue ultime produzioni, ossia i paesaggi accesi dai colori più sgargianti dipinti durante la permanenza nel manicomio di Saint Paul de Mausole in cui era ricoverato e dal quale non uscì più.
Una altalena di emozioni accompagna quindi i visitatori alla sala immersiva che conclude il percorso della mostra e dove si viene letteralmente avvolti in un romantico cielo stellato come a ritrovare la pace dopo tanto tormento.